Ti svegli la mattina presto. Ti fai settecento chilometri in macchina. Arrivi e ti arrampichi sui muri, strisci nel fango, corri con un tronco sulle spalle, immergi la testa nella melma, salti sui carboni ardenti. E tutto questo, pagando: 90 euro per l’iscrizione, 15 per il servizio fotografico, più benzina, abbigliamento tecnico, annessi e connessi. Dice: cosa sei, scemo? No, sono uno spartano.
Era agosto. Parlando con degli amici scopro che esiste questa cosa, la Spartan race. E’ una corsa a ostacoli. Sono 5, 10 o 21 chilometri, a seconda della categoria in cui ci si vuole cimentare. Nel tragitto si incontrano 20 (25, 30) barriere o difficoltà da superare. A correre sono buoni tutti. Per scavallare gli ostacoli della Spartan ci vogliono tecnica, forza, resilienza. E un po’ di culo, per evitare di farsi male.
Gli spartani erano i coatti della Magna Grecia. Mentre ad Atene le fighette in vestaglia inventavano cose tipo la democrazia o la metafisica, a Sparta uomini ruvidi venivano addestrati alla guerra secondo la disciplina dell’agoghé. Una roba tipo bastone e carota, ma senza carota. Joe De Sena, americano di origini napoletane, puliva le piscine nel Queens, New York. Finché un giorno, l’illuminazione. Ha fatto suo il mito di Sparta e si è inventato questa corsa a ostacoli. Come? Facendo leva sul rifiuto dell’americano medio verso un destino già scritto. Essere un pappamolla. Con la panza, la birretta nella destra e il telecomando nella sinistra.
De Sena ha offerto una possibilità di riscatto. Far sentire eroe per un giorno anche l’ultimo coglione. Sottoporlo alla pressione delle prove di forza e di coraggio, senza doversi arruolare nei Marines. Le Spartan Race sono antidepressivi naturali. Durante lo sforzo il corpo produce endorfine. Arrivare alla fine e beccarsi la medaglia, poi, dà un senso di potenza. E, ovviamente, crea un esercito di invasati.
Dal 2010 De Sena ha organizzato 800 eventi in 42 Paesi. La Spartan Race è una Guantanamo dove le persone si offrono alle “sevizie” spontaneamente: “Il mio sogno”, rivela il patron, “è mandarvi tutti a letto alle 8 di sera e svegliarvi la mattina alle 5, con i burpees”. I burpees sono la penitenza che ti tocca se fallisci un ostacolo. In pratica, delle flessioni speciali. Ti stendi a terra e ti tiri su facendo pressione con le mani, poi scatti in piedi e fai un salto sul posto. Facile? Come no: tu ripeti l’esercizio 30 volte e poi vedi se non inizi a invocare la Beata Vergine più di Matteo Salvini….
L’altra crociata del santone spartano è contro gli eccessi alimentari. “Il mio obiettivo”, ha annunciato parlando con la rivista Forbes, “è cancellare il cibo spazzatura”. La Spartan Race non è solo sport, è “una filosofia” che non si esaurisce con l’evento in sé. “E’ un programma di allenamento e nutrizione”. Lo stesso De Sena si vanta di aver redento numerosi panzoni. Il cinquantunenne pel di carota, ovunque vada, si porta sempre dietro un kettlebell (un peso a forma di campanaccio) da 44 chili. E’ una scommessa che ha vinto (o perso) con un suo cliente al quale ha fatto perdere 195 chilogrammi di trippa. E veniamo infine al sottoscritto. Sarò scemo, ma io questa cosa l’ho presa sul serio davvero. Ho riempito il modulo di iscrizione e ho pagato i miei 90 euro. Senza protestare. Poi mi sono chiuso in palestra 30 giorni per perfezionare la mia preparazione. Quattro sessioni settimanali, anche cinque. Allenamenti di 90 minuti in sala pesi più altri 35 di corsa sul tapis roulant. Obiettivo: sudare da ogni orifizio, abituare il fisico alla resistenza e al sacrificio.
Contemporaneamente ho cominciato il Ramadan alimentare: cinquanta percento di carboidrati, 30 di proteine, 20 di grassi. In cucina sono diventato il Cannavacciulo del Biafra, lo chef della tristezza. Famosa (famosa tra chi mi percula) è la mia ricetta della “water pasta”: mezze maniche integrali lessate nell’acqua portata a bollore. Condimenti: niente. Manco il sale (aumenta la ritenzione idrica). I miei patimenti alimentari comprendono l’eliminazione di pizza, dolci, fritti e altri alimenti ad alto contenuto calorico. Non tocco alcol. Fumo solo succedanei delle sigarette. Ovvio che questo stile di vita mi ha condotto alla emarginazione sociale. Ma pazienza.
Il giorno della Spartan Race mi rendo conto che ho strafatto. Alla linea di partenza mi sento Rambo che sale sul 43 Express alle otto del mattino. Con me c’è quasi tutta gente normale. Noto pancette e fianchi con accumuli di grasso. Li guardo con severità. Senonché al primo muro da scavalcare, sbaglio gamba di appoggio e resto appeso come un fesso, finché uno dei falsi magri che avevano attirato il mio biasimo non mi spinge il culo dall’altra parte. Grazie fratello spartano inquartato: perdono te e la tua dieta disordinata. Il resto della gara fila liscia. L’obiettivo era tornare a casa intero. Invece chiudo con un buon tempo (buono per un giornalista). Come “finisher” mi toccano medaglia, maglietta, due banane e un buono per la birra. Ma rifiuto il boccale sdegnato: “No grazie, mi si appanna l’addome”. Non sono uno spartano. Sono un caso patologico.