Si presentava così: “Ruby Hayek”. E, con quel cognome, semmai poteva essere la nipote di Selma Hayek. O di Friedrich von Hayek, il sociologo. Non una parente di Mubarak. Eppure, con quella attitudine a raccontare balle, Karima El Mahroug, per sua stessa ammissione, si è cacciata in una tale catena di casini da uscirne solo ora: tredici anni dopo. Oltre ad aver causato – involontariamente, eh – la caduta di un governo. Dettagli…
Oggi, con un tempismo perfetto, esce il suo libro-verità. Ventiquattr’ore dopo la sentenza che ha chiuso il catalogo dei processi “Ruby”. Non ha scommesso sull’assoluzione. Nell’ultimo paragrafo di “Karima”, scritto con Raffaella Cosentino (217 pagine, 14,90 euro, Independently published), l’autrice non dà per scontato niente. Anche se si proclama innocente fin dalla prefazione. Con due precisazioni ossessive che si inseguono in tutte le pagine. La prima: mai fatto la mignotta; la seconda: non è vero che non mi lavo. E una domanda, auto-assolutoria, che pone al lettore: ma a 17 anni non ti inventavi pure tu delle balle?
Spoiler: chi si aspetta cronache pecorecce, mucchi selvaggi, giochi di ruolo, lettoni di Putin sventrati, descrizioni minuziose del birillo presidenziale, resterà profondamente deluso. Al termine della lettura, il recensore annota due amplessi in totale. E non risultano coinvolti partner istituzionali. Del tipo che Madre Teresa di Calcutta aveva una vita sentimentale più movimentata.
Ma partiamo dall’inizio. Perché Karima è così compulsiva nel raccontare minchiate? Sostanzialmente per essere accettata, racconta lei. Non viene da zero. Ma dai numeri decimali. I flash dell’infanzia: nasce in un villaggio del Marocco, poi con la madre raggiunge il padre in Italia. Prima in Calabria, poi in Sicilia. Ora magari ci immaginiamo la El Mahroug mentre afferra un nigiri di capasanta con le bacchette giapponesi. Ma da piccola “non usavo le posate, avevo sempre mangiato con le mani”. Non veste alla moda, va al mercato a vendere copricuscini, cambia scuola spesso. Diventa subito un bersaglio: “La marocchina di merda”. Cresce, sviluppa e il rapporto con il padre si complica. E qui l’argomento del libro diventa un altro semmai. La mancata integrazione di una famiglia di immigrati, con una figlia che vuole emanciparsi e i genitori che le hanno già combinato il matrimonio. Non porta il hijab: cinghiate. Socializza con i suoi coetanei italiani: schiaffi. Sveglia il padre tirando lo sciacquone dopo aver pisciato: altre cinghiate.
In questo contesto Karima pensa che l’unica soluzione sia la fuga. E inizia ripetutamente a scappare di casa. Transita in 18 comunità minorili. Scappa ancora. Dorme sulle panchine. Poi piccoli furti per mangiare e per spostarsi con i treni. Svuota le cassette delle offerte delle chiese. A un certo punto si fa un curriculum da sbandata di tutto rispetto. Precedenti tirati spesso fuori dalla procura di Milano per ricostruire il suo profilo giudiziario.
Sviluppa. Le vengono le tette. Inizia ad attirare gli appetiti maschili. Dorme spesso in casa di sconosciuti, accetta passaggi per strada. E le mani automaticamente si allungano. Il suo stato di sostanziale barbonaggio non aiuta. Sembra avviata su un piano inclinato che la spinge verso la più antica delle professioni. Lei nega: mai accettato soldi per una marchetta. Neanche quando si ritrova a lavorare in un centro massaggi, per poi capire che la prestazione prevedeva anche l’happy ending. Fugge di nuovo.
Nel libro Karima ribadisce di non puzzare. Insistentemente. Forse perché questa storia è finita negli atti giudiziari e lei l’ha presa male. Quando dormiva per strada, spiega, aveva studiato una tecnica per lavarsi a pezzi, nei cessi dei bar. E, appena aveva due soldi, correva dall’estetista a sistemare i peli superflui.
A 16 anni partecipa a un concorso di bellezza. Nella giuria, tra gli altri, c’è Emilio Fede. Si presenta: “Sono Ruby Hayek, metà egiziana, metà brasiliana”. L’ex direttore del Tg4 le dà il numero di telefono e la invita a trasferirsi a Milano. Ma poi esce di scena. Non è lui che porterà Karima ad Arcore. Ci pensa Lele Mora. E’ il 14 febbraio 2010. Con altre ragazze partecipa a “una cena elegante” nel salone di Villa San Martino. Ruby, stringendo la mano del Cav, aggiunge altre fesserie: “Ho ventiquattro anni. Mia madre è una cantante molto famosa in Egitto”. Il climax della narrazione non decolla. La ragazza marocchina va via a metà serata, ricevendo, all’uscita, il numero personale del Cav e una busta: “Quattro biglietti da cinquecento”. Per il disturbo. E sono gli unici soldi che Karima dice di aver preso dall’ex premier. Le buste alle cene e un prestito da 30mila euro per aprire un centro estetico. Il bunga bunga? “C’erano esibizioni, balletti sexy, travestimenti, spogliarelli. Io mi sono esibita ballando la danza del ventre”. Niente zum-zum con il padrone di casa? “Mi ha aiutato senza chiedere niente in cambio”.
Zero. Non c’è l’epilogo hard. A pagina 153 si può chiudere e passare a Fabio Volo. C’è giusto la ricostruzione di un ultimo episodio, non inedito, perché già indagato millemila volte dalla procura di Milano. E’ il 27 maggio 2010. Karima litiga con la coinquilina e questa l’accusa di furto. La marocchina finisce in Questura. Non ha i documenti. Arriva in soccorso Nicole Minetti, con la storia della “nipote di Mubarak” e viene rilasciata. Intervento che, precisa “ex” Ruby, lei non aveva sollecitato e non ha apprezzato: “Ma chi te l’ha chiesto?”. Sipario.